Concetto di repéchage e patto di dequalificazione
Articolo a cura di Barbara Guidi – QHSE & CSR Management
L’indirizzo predominante della giurisprudenza per lungo tempo, inclusa la Cassazione (cfr. Cass. 18 marzo 1995, n.3174), aveva ritenuto che il sorgere di una sopraggiunta impossibilità fisica, o psichica, del lavoratore in ambito di espletamento delle proprie mansioni, in assenza di espressa previsione legislativa o contrattuale, “potesse giustificare il licenziamento da parte del datore di lavoro, senza l’onere per questi di provare che nell’azienda non vi fossero altri posti di lavoro con mansioni confacenti alle condizioni del lavoratore.”1 La sentenza della Corte di Cassazione a S.U. n.7755 in data 7 agosto 1998 costituisce il momento del cambiamento nella giurisprudenza rispetto a quanto affermatosi fino a quel momento. Tale sentenza ha ritenuto non
sufficiente la sopravvenuta inidoneità psico-fisica del lavoratore, ponendo come vincolo l’obbligo di dimostrare che il lavoratore non sia in grado di adempiere a nessuna altra attività similare o inferiore, rispetto alla mansione per la
quale il lavoratore era stato assunto, ponendo come punto fermo comunque il mancato obbligo del datore di lavoro di riorganizzare la propria struttura lavorativa.
Tale sentenza introduce il cosiddetto concetto di repêchage – condizione molto discussa in ambito giuridico – relativa al possibile diritto del lavoratore di ottenere una mansione diversa da quella d’origine, equivalente o anche inferiore, compatibile comunque con la residua capacità lavorativa. 2 L’obbligo di repêchage è sostenuto in modo esteso ed esaminato nella sentenza n. 7755/98 poiché si rafforza il
concetto che l’obbligo di riammissione sarebbe condizionato “agli oneri probatori incombenti sul datore di lavoro che intende licenziare il prestatore per giustificato motivo oggettivo.” 3 Il datore di lavoro, in caso sia rilevata l’inidoneità psicofisica del lavoratore, ha l’obbligo di collaborare e cooperare (obblighi di cooperazione), organizzando le attrezzature e dispositivi per effettuare la prestazione di lavoro, e impiegare il dipendente con le proprie “capacità lavorative entro i limiti dell’oggetto del contratto, assegnando allo stesso ….., sempre che questo non comporti uno sconvolgimento rilevante nell’organizzazione dell’impresa, mansioni compatibili
con il nuovo stato di salute del prestatore, che possono essere equivalenti o inferiori, qualora il lavoratore anche tacitamente dimostri di volerle accettare al fine di conservare il proprio posto di lavoro.” Il conferimento di una diversa
mansione, equivalente o meno, non rappresenta una deroga all’art. 2103 del codice civile “(norma che regolamenta lo ius variandi datoriale), bensì rappresenta un adeguamento del rapporto contrattuale alle effettive capacità lavorative
del prestatore.” 4 Il consenso dell’interessato è comunque una conditio necessaria, secondo quanto esplicitato dalla Cassazione nella sentenza n. 7755/98, dove il ruolo del datore di lavoro si esplica con il cosiddetto patto di dequalificazione, vale a dire
nell’atto di attribuzione al dipendente di una mansione inferiore.
Se si considerano gli adempimenti relativi alla sicurezza e alla prevenzione (ex art. 2087 c.c. e D.lgs 81/08), essi tuttavia non possono costringere il datore di lavoro ad adottare tecnologie non pertinenti all’azienda o estranee, cosicché il datore di lavoro non è costretto “…a creare una figura professionale ad hoc ed ex novo per consentire
l’adibizione del lavoratore inabile a mansioni confacenti al suo stato di salute, risultando l’obbligo di repêchage ancorato al mero mutamento delle modalità esecutive della prestazione ovvero a variazioni nell’organizzazione
aziendale, comunque rientranti in quei margini di mutabilità ed elasticità che un impresa, per mantenersi efficiente e dinamica, deve essere in grado di assorbire.” 5
Qualora tuttavia il lavoratore ritenga illegittimo l’affidamento di una nuova mansione, esiste nella dottrina la possibilità del rifiuto del lavoratore come esercizio del diritto di autotutela, secondo la massima “inadimplenti non est adimplendum”, integrando gli estremi dell’eccezione d’inadempimento ex art. 1460 c.c., in quanto al lavoratore è
richiesta una prestazione lavorativa diversa da quella pattuita contrattualmente (Cass. 6.3.2001, n.5112 Pres. Mattone Est. Monaci).